In quest'ultimo periodo mi sono spesso chiesto da dove provenisse questa mia attrazione quasi viscerale per certi confini del mondo. Un'attrazione che mi ha portato a cercare l'essenza di isole remote come l’Islanda, le Azzorre, la Nuova Zelanda, le Fær Øer o la Groenlandia, e a immergermi in ambienti costieri dove la natura regna ancora sovrana, come la Baja California o il Nord della Norvegia o il British Columbia.
La risposta che ho trovato, dopo anni di viaggi e spedizioni, è che il vero fascino delle zone costiere e delle isole remote non risiede nell'estetica, ma nel loro incontro.
Provate a pensarci: non sono semplici paesaggi; sono confini. Luoghi dove due mondi – quello solido e quello fluido – si scontrano, si cercano, si definiscono a vicenda e creano uno spazio terzo, unico. Questo confine geografico diventa anche (quasi sempre) un confine culturale. Spingersi in queste terre di mezzo significa prepararsi a un incontro con la cultura delle isole e con l'anima dei luoghi selvaggi, un'anima forgiata da elementi che non perdonano e da un isolamento che esige risposte.

L'isolamento come crogiolo: la cultura delle isole remote
Del resto, l'isolamento geografico non è una mancanza. È un ingrediente attivo, un crogiolo che distilla l'identità. Quando le connessioni con il "continente" sono tenui, stagionali o semplicemente pericolose, le comunità non hanno altra scelta che rivolgersi all'interno e all'ambiente immediato per trovare sostentamento, significato e storie.
Si pensi alle Azzorre. Nove isole vulcaniche perse nel mezzo dell'Atlantico, per secoli un avamposto definito non dagli orologi del continente, ma dal ritmo delle correnti, dal passaggio delle tempeste e da quello dei grandi cetacei. La loro stessa identità si è forgiata su questa solitudine oceanica. La vita dei baleeiros, i balenieri, non era solo un mestiere, ma una cultura basata sul rischio, su una profonda conoscenza del mare e su una resilienza comunitaria.
Oggi che la caccia è finita, quell'eredità sopravvive in una identità costiera unica, un misto di rispetto e timore per un mare che dà e che toglie. Il loro essere "isole remote" - ancora là, isolate, lontane e disperse nel mezzo dell'Oceano Atlantico - ha costretto gli abitanti a sviluppare un'autosufficienza e un legame con la terra vulcanica e l'oceano che non ha eguali in Europa.
La voce della wilderness: biodiversità e simbiosi nelle coste selvagge
In alcune parti del mondo, l'incontro è doppio. L'oceano non incontra solo la roccia, ma anche un altro regno potente: la foresta antica. La wilderness costiera è spesso un "ecotono", un'area di transizione biologica dove la diversità di due ecosistemi si sovrappone e crea una ricchezza che non si trova in nessun altro luogo.
La British Columbia forse ne è l'esempio perfetto. Su Vancouver Island o nella Great Bear Rainforest, le foreste pluviali temperate scendono letteralmente fino all'acqua salata. Questo è un motore biologico continuo. Il salmone, nato nei fiumi, migra nell'oceano e torna a morire nelle stesse acque dolci, diventando il vettore che trasporta i nutrienti marini nel cuore della foresta. Orsi, lupi, aquile e persino gli insetti si nutrono di queste carcasse, fertilizzando il suolo e permettendo ai giganti di cedro e abete di crescere.
La simbiosi tra uomo e ambiente costiero è l'anima più autentica di un luogo. La cultura delle First Nations, come gli Haida o i Tsimshian, non è accanto a questa biodiversità: ne è figlia. La loro arte, i loro totem, le loro leggende non sarebbero potute esistere senza il salmone e il cedro.
Lo stesso principio si applica altrove, penso ad esempio alla Nuova Zelanda. Il suo lungo isolamento l'ha trasformata in un laboratorio evolutivo, dando vita a un vita endemica incredibile: uccelli che non volano, felci arboree giganti, antiche foreste di podocarpi. L'incontro con la cultura Māori è inseparabile dall'incontro con il maui (la forza vitale) di queste foreste uniche e delle coste selvagge che le proteggono.
Anche la Baja California, pur apparendo desertica, prospera su questo incontro: le correnti fredde del Pacifico, incontrando le acque calde del Mare di Cortez, creano un'esplosione di plancton che nutre balene, leoni marini e una miriade di specie ittiche, rendendo "l'acquario del mondo" una delle zone costiere biologicamente più ricche del pianeta. Il paesaggio terrestre è definito dalla scarsità. Cactus giganti (cardón), rocce arse dal sole, un ambiente che sembra respingere la vita. L'incontro culturale qui è con la tenacia. È con la storia dei Seri (Comcáac), un popolo indigeno che ha prosperato per secoli in questo ambiente apparentemente impossibile, vivendo in un equilibrio perfetto tra il deserto e il mare. La loro identità costiera non è costruita sull'abbondanza della foresta, ma sulla profonda conoscenza dei cicli del deserto e delle migrazioni marine.
Camminare in queste foreste, sentire l'odore del legno umido, assaporare il sapore del deserto mischiato all'aria salmastra, è un incontro con una visione del mondo dove non esiste separazione.

L'anima dei luoghi selvaggi: appunti sull'ascolto
Ricordo una spiaggia desolata nel nord dell'Islanda, poco lontano da Husavík: non c'era nulla, solo sabbia nera, tronchi di alberi portati dalle correnti artiche e il vento. Un vento incessante, che soffiava dentro il luogo.
Stando fermo ad ascoltare, quel suono ha smesso di essere rumore ed è diventato una voce. Era il respiro del luogo. In quel momento, l’essenza era tutta lì: essere presenti in quel dialogo intimo tra terra e vento.
Il vero fascino delle zone costiere e delle isole remote, quindi, non sta nell'elenco delle cose da vedere. Non è una cartolina, per quanto sublime.
È un'esperienza di scambio. È l'incontro con culture plasmate da forze immense e dalla ricchezza biologica scaturita da quel confine. Popolazioni che hanno imparato a vivere con gli elementi, e grazie ad essi, non contro di essi. È l'incontro con storie nate dall'isolamento, con mitologie complesse create per dare un senso al vento, alle maree e al ciclo della vita.
Questi luoghi agiscono come uno specchio. L'assenza di rumore di fondo, la potenza cruda della natura e l'isolamento costringono le culture locali, e di conseguenza il viaggiatore che vi si immerge con autentico rispetto, a definirsi in termini essenziali, un ritorno a una dimensione più fondamentale dell'esperienza umana.
                
                            